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Roberto Giacomelli
•Seoul. In una giornata di sole un folto numero di persone sta facendo il pic-nic in riva al fiume Han, ma una strana creatura si avvicina ai bagnanti: la curiosità si trasforma subito in paura, poiché il mostro emerge dall’acqua e comincia a seminare il terrore. Prima di rituffarsi nel fiume, la creatura afferra e porta con se una ragazzina, Hyun-seo. Dopo quell’accadimento, il padre della bambina e i suoi familiari cominceranno a dare la caccia al mostro per ritrovarla, scontrandosi anche con le forze governative che vorrebbero tenerli in osservazione in un ospedale militare per paura che il mostro abbia trasmesso loro un virus.
Per la serie “Diamo a Cesare quel che è di Cesare”, il monster movie, dopo un lungo e tortuoso viaggio che ha toccato le più svariate geografie (con una predilezione per il Nord America), torna nell’estremo oriente, precisamente in Corea del Sud, rappresentato da quello che i numeri hanno consacrato il più grande successo cinematografico commerciale coreano di tutti i tempi: “The Host”.
Il film in questione però si distacca abbastanza dall’estetica camp dei Godzilla & Co. che hanno reso famosa la produzione cinematografica asiatica di questo filone, cercando piuttosto una inusuale contaminazione di generi e un’eleganza formale propria del blockbuster. Malgrado le premesse siano davvero ottime, a conti fatti “The Host” mostra più difetti che pregi, lasciando l’amaro in bocca a chi era predisposto per il ritorno in grande stile della tradizione kaiju-eiga dopo la ghettizzazione “fans-only” delle ultime produzioni asiatiche appartenenti al filone.
A tal proposito, “The Host” ha un incipit magnifico. Dopo il prologo di routine in cui viene mostrata la causa dell’imminente mostruosità, come di consueto generata dall’azione umana fraudolenta contro la natura (in questo caso il regista e sceneggiatore Joon-ho Bong si è ispirato ad un reale fatto di cronaca avvenuto nel 2000, quando uno scienziato americano ordinò ad un suo sottoposto di scaricare nelle fogne di Seoul diversi litri di formaldeide), assistiamo allo stupefacente primo attacco del mostro, ricco di phatos e adrenalina, capace di lasciare realmente a bocca aperta lo spettatore. Il regista non si fa troppi problemi e catalizza fin da subito l’attenzione direttamente sulla creatura che, a differenza di gran parte dei monster movie di stampo orrorifico, è subito mostrata chiaramente in tutto il suo splendore digitale, quasi a voler affermare che nel 2006 è inutile celare l’aspetto del mostro ad un pubblico potenzialmente ormai svezzato a tutto.
Fatto ciò, adagiato quindi lo spettatore su un emozionante ottovolante, lo spettacolo comincia già a scricchiolare. A partire dalla ridicola e
grottescamente melodrammatica scena del “funerale”, il film depone subito la maschera e rivela di essere incentrato unicamente sulla vicenda di una famigliola che ha perso una bambina nell’attacco del mostro. La vicenda si fa dunque intima e, d’ora in poi, scanserà sempre e comunque il sapore fanta-apocalittico che solitamente hanno questi film. La scelta può essere condivisibile o meno, ma è innegabilmente una decisione coraggiosa e per certi versi originale, peccato che funzioni poco. Si tenta in più occasioni la carta della commedia grottesca, intrisa di quella comicità sopra le righe pensata ad uso e consumo esclusivo degli stessi orientali; passando poi al dramma familiare da barzelletta, comprensivo di tutti i luoghi comuni possibili e immaginabili e consumato in un nucleo familiare composto da personaggi-stereotipo trattati in modo approssimativo e assolutamente prevedibile. Per esplicitare l’abuso di “luoghi comuni” inseriti in “The Host” basti pensare che c’è una famiglia di seconda generazione formata da padre e figlia piccola a carico, con tanto di fantasma materno che aleggia “colpevolmente” sui suoi cari. C’è poi un padre/nonno amorevole che incarna la tradizione e la dedizione al lavoro, un po’ burbero ma dal cuore d’oro; una figlia/sorella/zia insicura e incapace di esprimere il proprio talento e un figlio/fratello/zio arrogante e frustrato.
Aggiungete poi che il protagonista è il classico personaggio imbranato che segue un arco di trasformazione che lo porta ad essere un eroe, che la zietta viene presentata in una competizione di tiro con l’arco in cui non riesce a scagliare la freccia che potrebbe portarla alla vittoria, urlando così allo spettatore che sul finale riuscirà a scagliarla quella freccia, che lo zietto arrogante alla fine deve dimostrasi altruista e farsi protagonista di almeno un gesto eroico. Insomma, personaggi creati con lo stampino di cui intuiamo le sorti già dal primo momento in cui ci vengono presentati. “E che c’è di strano?”. Direte voi. In fin dei conti questi sono topoi caratteriali molto frequenti nel cinema d’intrattenimento. Il fatto è che “The Host” è stato innalzato inspiegabilmente a capolavoro su molti lidi, dove mai mi è capitato di leggere un accenno alle innumerevoli banalità e/o mancanze di cui innegabilmente questo film si fa portatore, quasi a far sospettare che il mare di ovazioni giungano più per la provenienza geografica del prodotto che per reali meriti artistici.
Ma andiamo avanti. Il film è eccessivamente lungo (2 ore) e si perde in un mare di prolissità che appesantiscono notevolmente la fruizione del prodotto. Ad un certo punto viene introdotta anche la tematica “virus”, dal momento che viene gettata l’ipotesi che il mostro sia portatore di un qualche contagio. Questa sarebbe stata una bella carta da giocare, contestualizzando anche l’odierna paura delle pandemie che spesso vede protagonista proprio l’Asia e fornendo così l’opera di quel sapore socio-politico che da sempre scorre sottopelle a questo genere di produzioni, avvalorandole. Purtroppo, però, la variante del virus viene presto abbandonata repentinamente con un giro di boa di denuncia politica che allo stesso tempo, se
maggiormente sviluppata, avrebbe fornito del plusvalore all’intera opera. Così facendo, invece, si ha solo la sensazione di aver voluto aggiungere troppa carne al fuoco senza aver avuto poi la capacità di portarla a giusta cottura, ampliando così solo il senso di confusione e pesantezza generale.
Per il resto c’è da dire comunque che la confezione generale, come spesso accade nei blockbuster, è davvero di prima qualità, a cominciare dal look della creatura e dalla sua realizzazione, curata dal team The Orphanage in associazione con la neozelandese Weta. Anche la regia di Joon-ho Bong (“Memories of Murder”) è dinamica e professionale, sia nelle scene d’azione che in quelle più statiche e che viene resa al meglio a cominciare dalla già citata sequenza d’apertura.
“The Host” è dunque un prodotto mediocre, sicuramente sopravvalutato, che si concede troppe cadute di ritmo e stile. In campo monster movie, di recente, è stato fatto sicuramente di meglio con l’inquietante “Cloverfield”.