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Roberto Giacomelli
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In un passato lontano, un villaggio immerso nei boschi e coperto dalla neve è periodicamente visitato da un enorme lupo a cui gli abitanti offrono in sacrifico un animale per ogni sua visita. Un giorno però il lupo rompe la tregua e uccide una ragazza, scatenando la paura e l’ira dei paesani che chiamano Padre Solomon, un cacciatore di lupi che dovrà liberare il villaggio dalla minaccia. Giunto sul luogo, Padre Solomon rivela ai paesani che non si tratta di un semplice lupo, ma di un licantropo e che di giorno il colpevole ha sembianze umane e si nasconde sicuramente tra di loro. Durante il nuovo attacco della bestia, Valeria, sorella della ragazza uccisa, ha un incontro ravvicinato col mostro che le parla dicendole di fuggire via con lei. A questo punto, la ragazza comincia a sospettare che il lupo mannaro sia uno dei suoi due pretendenti, il timido promesso sposo Henri o il fascinoso Peter, di cui lei è da sempre innamorata.
Vampiri e lupi mannari tirano al cinema oggigiorno e possiamo capire da cosa è scaturito questo successo. Si chiama “Twilight”: prima una saga letteraria che ben presto è diventata anche cinematografica, il target medio è di sesso femminile e si aggira tra i 12 e i 20 anni, ha lanciato nel firmamento di hollywood una manciata di giovani attori e il successo è stato planetario. Ovviamente i vampiri e i lupi mannari che si aggirano da quelle parti non sono quelli cari al pubblico dell’horror, non sono i mostri sanguinari di cui le antiche leggende ci
hanno raccontato, sono romanticoni dall’aspetto teen che non succhiano, non mordono, non graffiano ma danno solo bacetti casti…insomma, sono temibili come un micetto e spaventosi meno della pantera rosa. Ma perché parlare di “Twilight” nel territorio di “Cappuccetto Rosso Sangue”? Solo perché anche qui ci sono lupi mannari e adolescenti? Ovviamente il motivo è più ampio e parte da una certa Catherine Hardwicke, regista di questo e di quel film, che ormai sembra aver trovato una cifra stilistica nel dramma sentimentale lievemente (ma moooolto lievemente) contaminato con l’horror.
“Cappuccetto Rosso Sangue” segue a tavolino la formula twilightiana, ne eredita la regista e punta, di conseguenza, al medesimo pubblico. Fortunatamente però c’è meno sciatteria di fondo, meno stucchevolezze e l’apporto marginale della fiaba di Perrault gli dona una marcia in più. Come si può capire dalla trama, la fiaba da cui questo film prende il titolo però c’entra ben poco e appare come semplice pretesto per creare un contesto familiare al pubblico. Il lupo diventa prevedibilmente un licantropo, Cappuccetto rosso non è più una bambina, il cacciatore è un uomo di Chiesa con le unghie
placcate d’argento e c’è perfino un’ambigua nonnina, che in una scena onirica diventa perfino protagonista del famoso scambio di battute con la nipote “che occhi grandi che hai! – è per guardarti meglio!...”ecc..
La Hardwicke gira la sceneggiatura di David Johnson (“Orphan”) senza troppa fantasia, affidandosi esclusivamente a un gusto estetico patinato molto stiloso. A riguardo è lodevole la fotografia di Mandy Walker (“Australia”; “Beastly”) che fa risaltare il rosso della mantella della protagonista sul bianco della neve accentuandone i contrasti. Suggestive anche le scenografie boschive e nevose, che richiamano alla mente quelle di “Il mistero di Sleepy Hollow” e di conseguenza di alcuni lavori della Hammer Film anni ’60.
A proposito di sceneggiatura, se il meccanismo da whodunit (chi è il lupo mannaro?) funziona bene con un discreto colpo di scena, non si può dire altrettanto della caratterizzazione dei personaggi, tutti piatti e quasi intercambiabili tra loro, a cominciare dai protagonisti. Amanda Seyfried (“Jennifer’s Body”; “Letters to Juliet”) non fa altro che sgranare gli occhioni ma non sembra essere troppo dentro alla storia, ancora peggio i due anonimi contendenti Shiloh Fernandez (“Jericho”) e Max Irons (“Dorian Gray”). Gary Oldman (“Il cavaliere oscuro”) ci mette tutta la sua
professionalità nel ruolo del cacciatore di lupi, ma il suo personaggio non è sviluppato oltre il trauma della moglie uccisa, mente Virgina Madsen (“Number 23”; “Il Messaggero”), che come il vino migliora invecchiando, ha un ruolo così marginale che appare sprecata.
Potete dimenticare scene puramente horror. Il lupone nero in computer grafica non spaventa neanche un po’, non si trasforma in diretta e quel poco di sangue che sparge lo fa fuori campo o al buio.
“Cappuccetto Rosso Sangue” è un mero esercizio estetico che cerca di cavalcare l’onda del successo di “Twilight” puntando allo stesso target. Visivamente sontuoso, artisticamente irrilevante, orrorificamente nullo. Se volete una degna trasposizione horror della fiaba di Cappuccetto Rosso allora è meglio rispolverare “In compagnia dei lupi” di Neil Jordan….è tutta un’altra storia!