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Roberto Giacomelli
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Anny e Ana vivono segregate nella loro baita tra i boschi in preda alla violenza e ai soprusi di un padre spacciatore. L’uomo ha ucciso la madre delle ragazze quando erano solo delle bambine e ha abusato ripetutamente di loro tanto da mettere in cinta Anny, che ha dato alla luce un bambino deforme, che ha chiamato Manuel. Dopo anni di violenze, le due decidono di chiamare la polizia e in seguito a un cruento scontro a fuoco e una fuga, il padre delle due viene trovato e arrestato. Anny, Ana e Manuel rimangono nella baita, intimoriti e in balia degli eventi. Mentre Ana decide di prostituirsi in paese per guadagnare qualche soldo, Anny rimane a casa con Manuel, finché un giorno gli uomini di Costello, un boss locale a cui il padre delle ragazze doveva dei soldi, si mettono sulle tracce delle due per regolare il conto del genitore.
Questa in breve la trama di “Hidden in the Woods” (che in originale si titola “En las afueras de la ciudad”), che fin dal primo fotogramma mette ben in chiaro la sua natura da b-movie estremo. Urla, sangue e sofferenza fanno immediatamente capolino nel film del cileno Patricio Valladares, che dietro stessa ammissione dello sceneggiatore che ha scritto il film, il dylandogghiano Andrea Cavaletto, è un tentativo di riportare sul grande schermo i vecchi film da grindhouse che Tarantino e Rodriguez hanno fatto conoscere alle nuove generazioni. Ma attenzione! “Hidden in the Woods” ha poco a che
spartire con operazioni come “A prova di morte”, “Planet Terror” o “Machete”, che adottavano storie e linguaggi di quei film infarcendoli di ironia e adattandoli a un pubblico da blockbuster. Con “Hidden in the Woods” siamo invece in territorio di vero b-movie anni ’70 con la riproposizione di un tipo di film con immagini estreme e look grezzo che poco ha a che fare con l’effetto vintage da postproduzione. Piuttosto siamo in quei territori borderline recentemente esplorati con film come “Hobo with a Shotgun” o “Nude Nuns with Big Guns”, ma se possibile calcando ancora di più il pedale della violenza e della scorrettezza ed eliminando del tutto l’ironia.
Patricio Valladares non è di certo uno che le manda a dire! Il regista di “Dirty Love” e “Toro Loco” non
usa mezzi termini, metafore e intellettualismi di alcun tipo, piuttosto va diretto al punto, gettando immediatamente lo spettatore in una pozza di sangue, fango e sperma in cui si riassume violenza, sofferenza e sesso deviato in un crescendo di follia che prende il titolo di “Hidden in the Woods”.
Presentato al Fantasia International Film Festival di Montreal e al celebre FrightFest londinese, il quarto lungometraggio del cileno Valladares ha fatto inevitabilmente parlare di se, scaldando gli animi di qualcuno che l’ha accusato di oscenità, violenza gratuita e misoginia. Come spesso accade quando si tirano in ballo accuse di questo tipo, entra in ballo il vecchio e caro effetto boomerang che permette di avere esattamente l’effetto opposto di quello desiderato e così, come era già accaduto, per esempio, a “Martyrs” o “A Serbian Film”, parlare in certi termini di un film non fa altro che aumentare l’hype verso lo stesso, generandogli paradossalmente pubblicità positiva. Ed è quello che è accaduto a “Hidden in the Woods”, già accalappiato dagli
americani che ne stanno producendo un remake con lo stesso regista e Michael Biehn e William Forsythe nei ruoli principali.
Il risultato, per certi versi, è stupefacente perché Valladares è riuscito a portare a termine un film di tutto rispetto: budget piccolissimo, attori per lo più sconosciuti ed esiti più che soddisfacenti. Lo stile grezzo e sporco è utilizzato con intelligenza senza risultare un orpello modaiolo, bensì integrandosi a meraviglia in un contesto che lo richiedeva, mascherando così anche la povertà produttiva di fondo. Gli attori, poi, sono stati scelti con cognizione di causa (Daniel Antivilo è perfetto nel ruolo del padre violento) e per quanto riguarda le due sorelle protagoniste, interpretate da Carolina Escobar e Siboney Lo, ci troviamo dinnanzi anche a due brave attrici, che reggono un intero film con intensità e convinzione.
Malgrado le accuse di misoginia a cui il film è stato sottoposto, possiamo tranquillamente affermare il contrario, ovvero che la violenza sulle donne è mostrata in modo esplicito e insistito proprio per denunciare tali situazioni e infatti il punto di vista completamente femminile sulla vicenda e la struttura da “rape & revenge” che serve ad enfatizzare la vendetta di chi “ha subito”, servono proprio a tale intento.
Poi c’è da dire che in alcuni punti si può notare qualche incongruenza narrativa data soprattutto dai tempi e dai luoghi del racconto (manca la percezione temporale e geografica in alcune scene) e qualche scappatoia per aumentare la truculenza della vicenda è realmente gratuita (i due viandanti? Il cannibalismo?), ma il film ci piace così, ottuso e grondante sangue.