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Roberto Giacomelli
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In seguito al misterioso duplice omicidio di una coppia di adolescenti, a cui segue anche quello del padre di lei, un’ondata di morti colpisce la comunità di Grovetown, scatenando il panico tra gli abitanti. Ogni decesso è identificabile come suicidio e in città scatta l’allarmismo, tra chi pensa a una maledizione e chi si attacca alla propria fede. La diciottenne Lindsay, che ha una situazione familiare molto precaria e un legame particolare con la comunità cristiana, decide di investigare su questi misteriosi suicidi insieme al suo amico Aidan, che è visto di cattivo occhio dalla congrega religiosa del luogo.
L’introduzione di “From Within” è folgorante: due adolescenti simil-emo abbracciati al tramonto in riva a un lago che pronunciano frasi sconnesse e in una lingua poco chiara e poi BAM! Un colpo di pistola, fiammata in bocca e sangue sul volto di lei. I minuti che seguono promettono piuttosto bene, con un ulteriore suicidio, stavolta è la ragazza testimone della precedente morte a togliersi la vita con una forbice conficcata nella giugulare. Insomma, guardando i primi dieci minuti di “From Within” si ha la sensazione di essere di fronte a un teen movie di quelli ber orchestrati che forse hanno anche
qualche originale carta da giocare. Mai impressione fu più sbagliata, perché con il procedere dei minuti il terzo film da regista del direttore di fotografia Phedon Papamichael si rivela per quello che è: un tedioso teen movie senza idee ne ritmo.
L’idea alla base di “From Within” si fonda su due concetti chiave, il bigottismo religioso di alcune congreghe teocon e il malessere giovanile, qui rappresentato dall’atto del suicidio. Se il primo concetto è trattato con superficialità e con tutti i luoghi comuni che potete immaginarvi, il secondo cerca di rubacchiare qua e la suggestioni visive per esplicare riflessioni banali e risapute che cercano una propria dimensione nel soprannaturale. La condanna del fondamentalismo cristiano americano ha trovato lidi sicuramente migliori nell’acuto sarcasmo di un film come “Denti” o, se vogliamo, “Donnie Darko”, qui si viaggia più sulle noiosissime corde di filmetti come “Camp Hope”, solo con maggiore superficialità. Allo stesso tempo l’analisi dell’universo giovanile americano è incerta, confusa
fin dagli intenti iniziali: c’è la coppia di emo che si toglie la vita (luogo comune, of course), il figlio del leader religioso con una spiccata propensione alla violenza, il tizio bello e dannato ostracizzato dalla comunità ma che fa da calamita per gli ormoni virginali della protagonista e la protagonista stessa che è quanto di più risaputo si possa immaginare. Lindsay, comunque ben interpretata da Elizabeth Rice, è la solita adolescente per bene cresciuta in un nucleo familiare problematico (padre morto, madre alcolizzata e con un nuovo compagno che si comporta da stronzo), piena di incertezze, carina e tassativamente vergine, affascinata dal figo del paese outsider che però lei sente vicino perché anche lui ha perso un genitore e bla, bla, bla. Sguazziamo ampiamente nel luogo comune e nel già visto a tutti costi, c’è poco da aggiungere.
Quando Papamichael vuole toccare le corde dell’horror – perché non dimentichiamo che “From Within” è un horror! – mette dentro qualche spruzzata di sangue che ci sta pure bene e un alone da ghost story che funziona a corrente alterna. Nel rappresentare la minaccia si fa ricorso a una presenza che assume le sembianze delle vittime e le spinge al suicidio in una sorta di catena,
ricordando a tratti la moderna ghost-tendenza di matrice asiatica/americanizzata. In particolare si possono trovare affinità, soprattutto nella messa in scena delle sequenze che anticipano le morti, al contemporaneo “Riflessi di Paura” di Alexandre Aja (che infatti era adattamento del coreano “Into the Mirror”), nonché qualche richiamo tematico, forse involontario, a “E venne il giorno” di Shyamalan.
Nel cast di sconosciuti si fanno riconoscere i volti dell’antipatico Thomas Dekker (“Nightmare”; “Kaboom”) e della figlia d’arte Rumer Willis (“La coniglietta di casa”; “Patto di sangue”), mentre ad emergere è la già citata Elizabeth Rice.
Formalmente parlando “From Within” non ha pecche: regia ordinata, fotografia curata, colonna sonora variegata e spesso azzeccata. Nel complesso si ha però a che fare con un film vuoto e noioso, visibilmente indeciso su che strada prendere. Evitabile.
Aggiungete mezza zucca al voto finale.
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