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Roberto Giacomelli
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In una recente intervista, il regista e produttore James Wan ha affermato che la saga di The Conjuring ha il merito di aver (ri)portato l’horror al mainstream. Wan ha pienamente ragione: la tetralogia sui coniugi Warren (ma in parte anche gli spin-off che compongono il Conjuringverse) ha incastonato il cinema horror PURO – quello vietato ai minori e con tematiche soprannaturali, per intenderci – nelle logiche del cinema mainstream, il cinema per un pubblico molto ampio e non rappresentato dai soli fan del genere, creando attorno a ogni film un evento degno dei più blasonati blockbuster estivi. E questo è accaduto nel bene e nel male, perché fare cinema mainstream quando si trattano determinati generi vuol dire anche scendere a compromessi, regola che la saga di The Conjuring, in effetti, ha seguito. Ma tirando le somme, sono soprattutto i meriti che possiamo attribuire alla saga iniziata da James Wan, che ha contribuito notevolmente a rilanciare il genere anche tra le fila delle Majors.
Dopo un prologo ambiento nei primi anni ’60, dove vediamo i Warren alle prese con il loro primissimo caso paranormale prima che Lorraine entri in travaglio per dare prematuramente alla luce la loro figlia Judy, l’azione ci catapulta nel 1986, in Pennsylvania a West Pittston. Qui la numerosa famiglia Smurl, dopo l’acquisto di un antico specchio a un mercatino delle pulci, inizia ad essere vittima di accadimenti sempre più inquietanti e violenti che culminano con il ferimento della figlia maggiore e lo stupro di Jack Smurl, soggiogato da una presenza sovrannaturale mentre è in preda a una paralisi notturna.
Il caso della famiglia Smurl sale subito alle cronache, la loro casa viene assediata dai giornalisti e dai sedicenti esperti di paranormale, mentre l’opinione pubblica si divide tra chi empatizza con loro e chi li accusa di essere dei ciarlatani in cerca di notorietà. In tutto ciò, i Warren si sono presi una “pausa” dal lavoro e non accettano di interessarsi al caso, finché un evento inaspettato che li riguarda molto da vicino li conduce proprio nella residenza degli Smurl.
Ispirato, come i precedenti film, a un vero caso – documentatissimo – a cui Ed e Lorraine Warren hanno lavorato nel corso della loro carriera, The Conjuring – Il rito finale non rinuncia comunque a una consistente componente romanzata utile proprio ad approfondire le vicende della famiglia Warren rendendole “cinematografiche” e legate a doppio nodo con la storia soprannaturale che si trovano a indagare. Tutto quello che riguarda il prologo e lo specchio maledetto, infatti, non c’entra nulla con la reale vicenda della famiglia Smurl che, nei fatti documentati, è stata molto più violenta e spiazzante (per un approfondimento vi rimando alla pagina wikipedia). Però quanto costruito attorno alla storia principale risulta fondamentale a rafforzare la dimensione famigliare su cui si basa questa saga. Inoltre, la stessa vicenda degli Smurl era già stata oggetto del film del 1991 La casa delle anime perdute, diretto da Robert Mandel, in cui Stephen Markle e Diana Baker davano volto ai Warren.
Nei capitoli precedenti, soprattutto il secondo e il terzo, abbiamo vissuto il profondo attaccamento che c’è tra Ed e Lorraine, un amore vero che alimenta la loro lotta contro le forze del Male. In questo quarto film, invece, l’attenzione si sposta su Judy, la loro unica figlia, che è a tutti gli effetti la terza protagonista del film. Nata dalla morte e cresciuta confrontandosi con il richiamo dall’aldilà che Lorraine le ha insegnato a silenziare, Judy Warren è la chiave della storia, il motore che muove tutto quello che ruota attorno alla sua famiglia, a cominciare dalla realtà a cui i suoi genitori sono messi dinanzi: la loro bambina è cresciuta ed è il momento di lasciarla alla sua indipendenza.
In un certo senso, la consistente backstory su Judy e l’apprensione dei suoi genitori rischia di cannibalizzare il caso d’infestazione degli Smurl e l’anima puramente horror del film. Questo dato di fatto potrebbe far storcere il naso ai fan puri del genere. Ma è anche vero che la sceneggiatura di Ian Goldberg, Richard Naing (Autopsy, The Nun II) e David Leslie Johnson-McGoldrick (The Conjuring – Il caso Enfield, Orphan, Aquaman) trova la sua bontà soprattutto grazie al minuzioso approfondimento dei rapporti, all’attenzione che riserva alle dinamiche di casa Warren, tutti elementi che portano lo spettatore ad affezionarsi realmente ai personaggi (che, tra l’altro, già conosce!) e a patire con loro il pericolo.
Michael Chaves, purtroppo, non è James Wan e seppure riesca a piazzare un paio di momenti di tensione molto ben congegnati (la bambolina davanti allo specchio, il quadro di John Wayne in cantina), mancano quei momenti di genuino terrore dei primi due The Conjuring che ancora oggi ricordiamo con un certo timore.
Come accade per tutti i capitoli di questo universo, un merito fondamentale per la riuscita del film ce l’ha l’incredibile lavoro di sound design che dà suono alla paura attraverso effetti, musiche tensive e la più classica colonna sonora. The Conjuring – Il rito finale rispetta la regola e il sonoro fa una buona metà del lavoro!
Oltre ai soliti Patrick Wilson e Vera Farmiga, ormai collaudatissimi Ed e Lorraine Warren, troviamo Mia Tomlinson nei panni di una ventenne Judy Warren e Ben Hardy (The Voyeurs, Bohmenian Rhapsody) nel ruolo del suo fidanzato. Dai film precedenti tornano Shannon Kook (l’assistente dei Warren) e Steve Coulter (Padre Gordon), ma ci sono tanti cammei dagli altri capitoli della saga, compreso lo stesso James Wan (a voi scovarlo!).
Siamo lontani dalla qualità e dall’intensità horror dei primi due film a firma di James Wan, ma The Conjuring – Il rito finale è comunque un buon film che sa unire con una certa maestria di scrittura l’approfondimento dei personaggi con le dinamiche del cinema horror, senza rinunciare a quel buonismo filocristiano che fa da leitmotiv a tutta la saga.
Se avete la pazienza di rimanere in sala fino alla fine dei titoli di coda, c’è un bonus sfizioso che mette a confronto realtà e immaginazione.