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Vincenzo de Divitiis
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Un gruppo di ricercatori ambiziosi e dalla grande genialità, capeggiati da Frank e da Zoe e immortalati da una giovane documentarista a caccia di riprese sensazionali, vede coronare i suoi lunghi studi con la scoperta di un siero in grado di riportare in vita i morti, denominato “Lazarus”. Il primo esperimento su un cane si rivela un successo, ma poco dopo l’università interrompe le ricerche perché avvenute senza regolari autorizzazioni. Il gruppo, tuttavia, non si perde d’animo e decide di continuare a provare il siero di nascosto con tutti rischi del caso che si materializzano in un incidente nel quale Zoe perde la vita. Frank, che della donna è anche il fidanzato, non accetta l’idea di perdere la sua amata e decide di provare il siero su di lei. L’operazione riesce perfettamente ma Zoe, una volta risvegliata, non è più la stessa e i protagonisti capiscono di aver risvegliato forze maligne. È l’inizio di un incubo senza fine….
Se per gioco dovessimo stilare un albero genealogico dell’horror attribuiremmo senza alcun dubbio il ruolo della madre a Mary Shelley. Con il suo romanzo più famoso datato 1818, il “Frankenstein”, la scrittrice inglese ha infatti segnato per sempre il genere e dato il via al connubio tra l’universo orrorifico e il mondo della medicina che tanto ha fatto le fortune della letteratura prima e del cinema poi. Dal 1931 in avanti, l’anno in cui James Whale porta nelle sale per la prima volta il mito del “Prometeo moderno”, gli schermi iniziano a pullulare di mad doctor che, accecati dalla loro hybris e dalla smania di sostituirsi a Dio, tentano in tutti i modi di riportare in vita i morti e creare un uomo perfetto e immortale.
Nasce così un archetipo consolidato e redditizio che vede numerose riproposizioni nel corso degli anni, non senza l’inserimento di alcune modifiche e varianti; basti pensare alla serie “Re-Animator” di Staurt Gordon e Brian Yuzna (ispirata al racconto “Herbert West rianimatore” di un altro padre della narrativa fantastica come H.P Lovecraft) in cui i toni si facevano decisamente più splatter e sanguinari, oppure ai gotici italiani anni Sessanta che avevano come protagonisti scienziati pazzi dediti anche a pratiche più estreme come la necrofilia. Insomma stiamo parlando di un caposaldo del genere, alla pari di vampiri e zombie. E non fa strano dunque che a questo carrozzone piuttosto remunerativo si sia voluto agganciare anche il reuccio dell’horror low budget, Jason Blum, il quale non si lascia scappare questa occasione e decide di produrre un film che racconta in chiave moderna il mito di Frankenstein, “The Lazarus Effect”. Al timone troviamo David Gelb, regista di documentari all’esordio con il genere horror, che mette in mostra qualche spunto interessante, non accompagnato però da un’originalità che è la grande assente di questa pellicola confezionata ad hoc per il grande pubblico.
Nonostante l’argomento sia tra i più inflazionati della storia del cinema, Gelb riesce a mettere in piedi una prima parte di film che ha una personalità tutta sua e, soprattutto, non cade nella trappola di trasformarla in una lunga e noiosa introduzione prima della prevedibile esplosione di violenza e morte.
Il merito di tutto ciò va attribuito ad una sceneggiatura (scritta da Luke Dawson e Jeremy Slater) precisa e puntuale nel descrivere tutti i risvolti di carattere scientifico e attenta a fornire un abbozzo di caratterizzazione della protagonista Zoe, aspetto fondamentale nella seconda parte. Accanto a quest’attenzione per il plot, tuttavia, il regista non rinuncia ad inserire fin da subito una discreta dose di tensione, come l’inquietante scena del cane che sale sul letto della dottoressa in piena notte e la fissa in una posa minacciosa o quella dell’incubo che tormenta da anni la protagonista e la riporta indietro di anni ad un passato oscuro e torbido.
Le buone cose di questa prima parte, però, vengono scalfite da una seconda frazione scontata e fin troppo infarcita di tutto il ricettacolo tipico del cinema horror contemporaneo: e così via libera ad un uso smodato di sbalzi sonori, apparizioni improvvise per cercare uno spavento facile e a movenze di Zoe che rimandano in modo spudorato al filone sulle possessioni demoniache, con tanto di vomito e corpo in lievitazione. Nonostante ciò, Gelb mette a segno alcuni discreti momenti di paura giocati tutti sull’atmosfera, valorizzata da una fotografia che rende cupi ed infernali gli ambienti del laboratorio, e su un accompagnamento musicale di forte impatto: da segnalare il suggestivo e indovinato utilizzo dell’aria della Regina della notte tratta da “Il flauto magico” di Mozart che sottolinea una delle sequenze più inquietanti. Peccato per alcuni effetti grafici posticci presenti all’interno di parti oniriche non molto fluide e inserite con approssimazione in una trama che via via diventa sempre più pasticciata e incanalata su binari ormai triti e ritriti.
A dare un sensibile contributo e a caricarsi il film sulle spalle è la star Olivia Wilde, che già aveva flirtato con l’horror nel modesto “Turistas”, molto efficace in un ruolo così diabolico e vera punta di diamante di un cast di buon livello formato, tra gli altri, dai bravi Mark Duplass e Evan Peters, noto ai più per la serie “American Horror Story”.
“The Lazarus Effect” è dunque un discreto prodotto di intrattenimento, ma per vedere qualcosa di innovativo e coraggioso bussate ad un’altra porta. Insomma per il grande pubblico può andare, ma per coloro più alfabetizzati col genere è poca roba.