Rika, une assistante sociale, se rend dans une maison sur laquelle pèse une malédiction, pour s'occuper de Sashie, une vieille dame alitée. Elle y découvre un petit garçon enfermé dans un placard, avant d'être agressée par un esprit malfaisant. Quelques jours auparavant, Hitomi, le fils de Sashie, s'était également fait attaquer par le spectre après avoir été témoin de l'apparition du même petit garçon. Lorsque la soeur d'Hitomi débarque à son tour, elle découvre une Rika en état de choc. Intervient alors Toyama, un policer chargé d'enquêter quelques années plus tôt sur la tragédie qui a secoué cette demeure maudite : un homme y avait tué sa femme, et leur jeune fils n'a jamais été retrouvé...
In una casa di un quartiere residenziale giapponese aleggia una tremenda maledizione che colpisce chiunque entra o viene in contatto con quell’abitazione. La prima ad accorgersi di tale minaccia è Rika, una giovane volontaria che presta lavoro come assistente sociale e che viene mandata in quella dimora per accudire l’anziana proprietaria. Ma Rika sarà solo la prima di una lunga lista di persone che verranno colpite dalla maledizione e che conosceranno le strane presenze che popolano la casa.
Cos’è Ju-on? Con questo termine giapponese si sta ad intendere: “La maledizione di una persona che muore in preda ad una collera furiosa che si accumula, e poi si scatena nei luoghi in cui quella persona è vissuta. Quelli che la incontrano muoiono, e una nuova maledizione prende vita.”
“Ju-on” (“Rancore” in italiano e “The Grudge” in inglese), è uno dei primi moderni ghost-movie orientali arrivati nel nostro paese e, senza ombra di dubbio, rappresenta una delle pellicole più famose e acclamate nel suo genere tanto da divenire in breve tempo un piccolo cult orientale.
Il film nasce come opera televisiva nel 2000 con la serie tv “Ju-on”, una serie che riscuote un inaspettato e strepitoso successo che incoraggia il produttore, Taka Ichise, e il regista-sceneggiatore, Shimizu Takashi, a lavorare ad un sequel sempre per la tv; ed ecco che nello stesso anno prende vita “Ju-on 2”. Anche questo secondo capitolo televisivo riceve un grande successo ed emoziona e spaventa milioni di spettatori nipponici e così si decide che il prossimo passo sarebbe stato direzionato verso il grande schermo: nasce così nel 2003 “Ju-on”, questa volta in versione cinematografica scritta e diretta sempre da Shimizu Takashi.
Ma “Ju-on” ha veramente tutte le carte in regola per poter essere lodato senza mai storcere il naso? A questa domanda ognuno è libero di attribuire la risposta che più gli sovviene, ma è giusto considerare l’opera in toto, esaltandone i pregi e sottolineandone i difetti.
Il primo e forse più grosso errore che la pellicola ci offre è il suo voler essere troppo fedele alla serie televisiva tanto da non riuscire a sviluppare un’ opera organica e abbastanza coinvolgente poiché non vi è un vero e proprio filo conduttore durante tutta la durata del film, ma il risultato è una combinazione di tante piccole storie che si aprono e si concludono in breve tempo. Ed ecco dunque che non avremo un vero e proprio protagonista in carne e ossa (anche se prevale la figura di Rika) ma l’elemento portante (e dunque protagonista) diverrà la casa maledetta.
Un secondo aspetto, che al comune occhio “occidentale” può far storcere il naso, è la location che poco si sposa con i gusti di noi occidentali, abituati nel nostro immaginario collettivo a rappresentare le case infestate con edifici spettrali, cupi, lugubri e che mettono i brividi al sol guardarli; in questo “Ju-on” tutto questo non c’è (ma sicuramente ciò sarà dettato dalle tradizioni e dalla cultura decisivamente differente). La casa infestata e maledetta è quanto di più normale si possa immaginare, un semplice edificio moderno che si sorregge su due piani e che potrebbe dunque essere la casa di tutti. E forse è proprio qui che si può cogliere un aspetto intrigante e raccapricciante nel rendere la “dimora del maligno” tanto normale e semplice, cioè spingere lo spettatore medio a pensare che anche nella sua casa potrebbe aleggiare qualche cosa di sinistro e malvagio. Probabilmente questo è un aspetto da considerare, ma fatto sta che lo spettatore medio non si sofferma a crearsi certi problemi ma si limita a giudicare ciò che vede, e ciò che vede nella location non è certo spaventoso.
Ma a questi diversi problemi narrativi e scenografici si accostano sequenze da brivido e apparizioni di fantasmi che tarderanno a farsi dimenticare. La realizzazione dei fantasmi, che va dal piccolo Toshio e il suo micetto alla madre Kayako, è davvero ottima e dunque saranno indimenticabili molte sequenze in cui questi appaiono; una su tutte è la fantastica e famosissima scena sul finale in cui Kayako rantola giù dalle scale emettendo un raccapricciante suono gutturale che stenta a farsi scordare.
Tutto ciò ci è offerto dall’opposizione che ha Shimizu Takashi ad aderire al New Horror Movement, ossia una tendenza cinematografica giapponese fiorita nella seconda metà degli anni ’90 e che ci dice che in un buon horror nulla deve essere mai veramente mostrato, poiché se in un film dove ci sono mostri ed elementi soprannaturali si vuol mostrare troppo si finisce con lo scadere involontariamente nel ridicolo e dunque per creare suspance e terrore occorre oscurare e nascondere la figura del fantasma. Ma Shimizu, contrario a tale tendenza, non si preoccupa di scadere nel ridicolo e decide dunque di mostrare i fantasmi il più possibile, anche quando in realtà non ve ne è per nulla bisogno. Ma ecco che così facendo, a scene decisivamente riuscite e terrificanti in cui l’orrore deve essere mostrato, si alternano sequenza ridicole, involontariamente comiche e decisivamente intruse (vedi la scena del vecchio sulla sedia a rotelle che fa le smorfie al bambino fantasma) che affermano ciò che ci viene dettato dal New Horror Movement.
Dunque questo “Ju-on” ci appare come un prodotto riuscito solo in parte poiché, seppure gode di scene davvero inquietanti e spaventose si lascia affondare da alcune ingenuità che potevano essere risolte in ben altro modo; inoltre, come spesso accade, alcune caratteristiche anche se in sintonia con il pensiero orientale, non trovano tanto accoglimento nel pensiero caratteristico della cultura occidentale.