RG
Roberto Giacomelli
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Una ragazzina di nome Carla Castillo viene ritrovata morta strangolata a Churchville; l’autopsia rivela che c’è stata anche violenza sessuale. L’agente di polizia Megan Paige indaga sul caso insieme al suo collega e compagno nella vita Kenneth Shine, ma lo stress per il troppo lavoro e la convinzione ossessiva di avere a che fare con un killer seriale portano Megan a un collasso nervoso di natura schizoide che la porta addirittura a vedere i fantasmi delle vittime che reclamano vendetta. Dopo aver trascorso due anni in una clinica, Megan viene riassegnata al caso dal suo ex ragazzo che nel frattempo ha fatto carriera. Una nuova giovane vittima viene rinvenuta stuprata e strangolata a Webster e il suo nome è Wendy Walsh. La teoria del serial killer si fa sempre più forte e appare ormai evidente un dettaglio precedentemente notato da Megan, ovvero che le vittime hanno l’iniziale del nome e del cognome uguale a quello del luogo in cui vengono ritrovate.
I film ispirati esplicitamente a serial killer realmente esistiti raramente risultano efficaci. Per lo più si tratta di prodotti per la tv o per l’home video e sempre più spesso presentano una fattura blanda e uno scarso coinvolgimento. Negli ultimi dieci anni di prodotti del genere ne sono usciti dozzine, tra il “Ted Bundy” di Matthew Bright, l’ “Ed Gein” di Chuck Parello, il “Dahmer” di David Jacobson e il “Gacy” di Clive Saunders – solo per citarne qualcuno – di operazioni che vanno dal mediocre al pessimo ne abbiamo viste molte.
Rob Schmidt (“Wrong Turn”; “Masters of Horror: Dal coma con vendetta”) si inserisce nel filone dirigendo un film che sembra porsi su linee qualitative ben superiori ai titoli su citati,
cercando una cifra stilistica che si avvicini il più possibile al “Zodiac” di David Fincher contaminato con un pizzico di soprannaturale, anche se il risultato è comunque ben lontano da quelle che potevano apparire delle ottime premesse.
Schmidt ci racconta la storia di colui che i media chiamarono killer dell’alfabeto, un assassino che fece tre vittime tra 1971 e il 1973 nei pressi di Rochester (Stati Uniti), tutte ragazzine tra i 10 e gli 11 anni, con iniziale del nome e del cognome uguale a quello del luogo in cui venivano rinvenute (da qui il soprannome del killer). Il caso del killer dell’alfabeto non fu mai risolto, ma il film di Schmidt ipotizza una fantasiosa soluzione che allontana questo prodotto da molti altri che si attengono più strettamente alla realtà dei fatti. “The Alphabet Killer”, infatti, non è propriamente una trasposizione fedele e
documentaristica dei fatti come poteva essere, ad esempio, il film di Fincher, si tratta bensì di una versione molto libera e decisamente romanzata dei fatti accaduti, tanto che i nomi delle persone coinvolte non coincidono e non viene neanche data una precisa collocazione temporale agli eventi.
L’idea che sta alla base del film è di raccontare una storia reale e realistica sotto un aspetto inedito, pregno di suggestioni orrorifiche che oscillano tra il paranormale e la pura follia. La Megan Paige interpretata da una brava Eliza Dushku (“Wrong Turn”; “Soul Survivors – Altre vite”) è una donna fortemente disturbata, immersa nel lavoro in modo tale da trasformare la sua caccia in ossessione, con effetti distruttivi sulla propria psiche. Il collasso che la porta a vedere i fantasmi delle giovani vittime che reclamano vendetta è l’esplicazione della sua condizione mentale, un espediente per nulla originale che però qui ha una certa efficacia. Le apparizioni dei fantasmi assicurano quel tocco di horror di cui il film si fa portatore e generano almeno un paio di scene riuscite, tra cui l’apparizione sotto il letto e la macabra sfilata di piccoli cadaveri in chiesa.
Quello in cui “The Alphabet Killer” non funziona affatto è l’aspetto più strettamente legato
all’intrattenimento. Il ritmo, soprattutto nella prima parte, è troppo lento e la vicenda sembra non riuscire ad entrare mai nel vivo, seppure non siano presenti preamboli di alcuna sorta. Si crea fin da principio una vera e propria barriera tra lo spettatore e il film che non permette di farsi catturare dalla storia. Colpa, principalmente, dei personaggi che, ad eccezione della protagonista, risultano uno più monodimensionale dell’altro. E ciò malgrado la sfilata di buoni caratteristi che affollano il film: Cary Elwes (“Saw – L’enigmista”; “Il collezionista”), Timothy Hutton (“La metà oscura”; “The Good Sheperd”), Michael Ironside (“Atto di forza”; “Starship Troopers”), Bill Moseley (“Non aprite quella porta 2”; “La casa del diavolo”) e Tom Noonan (“Manhunter”; “Last Action Hero”).
Perfino l’ultima parte, dall’impianto da thriller più convenzionale, non riesce a catturare più di tanto, a cui però si aggiunge anche una scrittura poco attenta che banalizza la vicenda e mostra limiti di credibilità, dati soprattutto da coincidenze di scioglimento narrativo un po’ facili.
Insomma, “The Alphabet Killer”, pur essendo una spanna sopra la maggior parte dei thriller “da cronaca nera” che affollano il panorama cinematografico, risulta un’occasione mancata e sicuramente l’opera per il momento più debole della filmografia di Rob Schmidt.