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Roberto Giacomelli
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Il perito assicurativo Jun-oh come primo incarico viene mandato in una fatiscente casa di periferia e lì rinviene il cadavere di un bambino impiccato. Malgrado la tragedia, Chung-bae, il patrigno del bambino, sembra interessato esclusivamente alla riscossione della polizza sulla vita di suo figlio. Il caso viene archiviato come suicidio, ma Jun-oh crede che in realtà si tratti di un omicidio architettato da Chung-bae e per questo blocca il pagamento della polizza e comincia a indagare su di lui. L’assicuratore scopre che Yi-hwa, moglie di Chung-bae e madre del bambino morto, è coperta da un’assicurazione molto alta e per questo cerca in tutti i modi di avvertire la donna del potenziale pericolo che suo marito rappresenta.
Nell’ampio calderone delle uscite estive ecco fare capolino anche “Black House”, thriller coreano che per una volta non racconta storie di fantasmi vendicativi, bensì la singolare odissea di un perito assicurativo che si imbatte in un avido killer che uccide i propri cari per riscuotere le polizze sulla loro vita.
Anche se la storia può suonare originale ai più, “Black House” è il remake del più modesto (a livello di budget) “Kuroi ie” (“The Black House”, per il mercato internazionale), thriller di nazionalità giapponese diretto nel 1999 da Yoshimitsu Morita e inedito da noi; inoltre a sua volta, il film giapponese era la trasposizione dell’omonimo romanzo di successo di Kishi Yusuke, dunque sostanzialmente nulla di troppo innovativo.
Ma in fin dei conti di innovativo e davvero originale c’è poco in questo “Black House” anche per lo spettatore italiano, perché se si va oltre l’inusuale (per il cinema thriller/horror) professione del protagonista e il movente dell’assassino ci troviamo di fronte ad un film che risulta fin troppo derivativo verso il moderno thriller americano a tinte forti. A cominciare dal protagonista Jun-oh, interpretato con grande bravura da Jeong-min Hwang (“A Bittersweet Life”), il classico individuo anonimo e dalla vita sociale poco attiva, frustrato e con una vita familiare non troppo felice a causa del matrimonio finito; il signor nessuno vittima degli eventi che si ritroverà a vestire i panni dell’ “eroe” suo malgrado. Un personaggio quasi stereotipato che comunque nel contesto in cui agisce funziona decisamente bene…un po’ meno la struttura narrativa che alterna in modo fin troppo netto ritmi e generi. Infatti “Black House” è diviso in due parti perfettamente scindibili: una prima con taglio da dramma sociale e un ritmo
davvero troppo lento, una seconda da thriller investigativo che sfocia nell’horror dal ritmo serrato.
La prima parte, quella da drammone, cerca di dipingere, in modo non troppo efficace, lo squallore della vita nella periferia della metropoli coreana equiparabile a un medesimo squallore ravvisabile nella solitudine della vita del protagonista borghese. Due modi di descrivere la “mancanza” che da una parte è data dall’assenza di legami umani, dall’altra dalla povertà economica che spinge a gesti orribili. Purtroppo questi significati vanno estrapolati e la descrizione della situazione personale di Jon-oh e del suo cliente Chung-bae non è troppo interessante per lo spettatore, spingendo lo stesso al facile sbadiglio. La situazione cambia radicalmente quando si comincia ad entrare nel thriller che addirittura si tinge di splatter in alcune trovate molto gratuite inserite nel finale. A questo punto il film decolla, acquista molto ritmo, ma si fa anche incoerente a livello logico e si incappa in alcuni
sfondoni sensazionalistici tipici del più spudorato e risaputo thriller da “cassetta”. Nulla di male, per carità, ma le due anime di “Black House” non riescono a convivere e sembra quasi che la seconda parte del film sia stata realizzata per piacere al pubblico occidentale.
Il regista esordiente Terra Shin se la cava bene e mostra di avere un buon gusto visivo, sicuramente aiutato anche dalla bella fotografia opaca di Ju-young Choi.
In conclusone “Black House” non convince del tutto soprattutto per la disegualità e la troppa impersonalità, si lascia vedere una volta, ma già a una seconda visone si è fin troppo tentati a tenere premuto il pulsante dell’avanzamento veloce.