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Roberto Giacomelli
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In seguito alla morte del suo creatore, il Mostro di Frankenstein decide si trasportare il cadavere dai ghiacci polari al Nord Europa per dargli degna sepoltura. Ma proprio mentre sta tentando di scavare una fossa a suo “padre”, il Mostro viene intercettato da un gruppo di demoni che vogliono impossessarsi del diario di Victor Frankenstein. Un salto temporale di quasi due secoli e troviamo il Mostro, ribattezzato Adam, intento a combattere i demoni, comandati da Naberius, al fianco dei Gargoyles che vogliono impedire che le forze del male regnino sulla Terra. Naberius, infatti, ha un piano: creare un’armata di morti viventi. E per riuscire nella sua impresa ha bisogno del diario di Frankenstein così da carpire il segreto della resurrezione.
Era il 1818 quando fu pubblicato per la prima volta “Il Prometeo moderno”, o “Frankenstein”, come poi è divenuto noto ai più, il romanzo d’esordio di una diciannovenne Mary Shelley, nato quasi per gioco in un weekend di tempesta, come viene efficacemente narrato nel film “Gothic” di Ken Russell. Era invece il 1931 quando James Whale dirigeva con grande ispirazione il capolavoro della Universal “Frankenstein” con uno strepitoso Boris Karloff nei panni del Mostro, condizionando per sempre la
raffigurazione iconografica della Creatura. Quella di Frankenstein, dunque, è una storia immortale che sta alle basi del racconto gotico/horror, ripresa e rielaborata in tutte le salse, da quella comedy di “Il cervello di Frankenstein” e “Frankenstein Junior”, a quella weird/fantascientifica di “Frankenstein alla conquista della Terra”. Ma oggi arriva in pompa magna una nuova e ulteriore variazione sul tema che porta il titolo di “I, Frankenstein” e la firma dell’australiano Stuart Beattie, già autore del flop “Il domani che verrà”.
Dimenticate tutto quello sapete sulla Creatura di Frankenstein e quanto di buono sia stato fatto negli anni per rendere questo personaggio un’icona dell’immaginario orrorifico. Tabula rasa, please. Perché con “I, Frankenstein” ci viene chiesto con un po’ di arroganza di accettare un personaggio e una storia che cozzano in maniera fin troppo prepotente con quanto faccia parte del nostro bagaglio culturale. Il Mostro di Frankenstein, proprio in quanto “mostro”, è una creatura repellente e grottesca, un cadavere rianimato sintesi di diverse parti di altri corpi morti cuciti assieme? Bene, anzi, male. Qui il “mostro” di Frankenstein è un figo con le sembianze di Aaron Eckhart, muscoloso e palestrato, non si esime dal mostrare gli addominali appena ne ha l’occasione e per giustificare il suo status di “mostro” gli hanno appiccicato un paio di cicatrici sul volto e sul corpo che lo rendono ancora più macho. Qualcosa già puzza di bruciato, vero?
Liquidato il collegamento alla storia che tutti conosciamo in un prologo che comunque non promette affatto male, cominciano i deliri senza fantasia che raccontano della solita guerra intestina tra Bene e Male che si svolge sulla Terra e di cui gli umani sono all’oscuro. Il Male è rappresentato da demoni che hanno fattezze umane, di industriali e uomini d’affari in giacca e cravatta, e quando si rivelano hanno ridicoli mascheroni di Halloween che ricordano tanto i demoni low-budget che hanno affollato e affollano gli schermi televisivi nelle serie fanta/horror come “Buffy”, “Streghe” o “Supernatural”. Tra le fila dei buoni ci sono invece i Gargoyles, i mostri di pietra che adornano le costruzioni gotiche europee, che qui sono una sorta di guardiani paradisiaci di matrice arcangelesca che hanno anch’essi sembianze umane e all’occorrenza mostruose e sono raccolti in una gerarchia monarchica capeggiata dalla Regina dei Gragoyles Miranda Otto.
Insomma, ci siamo capiti, no?
“I, Frankenstein” è un film figlio della generazione dei moderni film di super-eroi, mescolato a quelle atmosfere ultra-dark di prodotti alla “Underworld” (e infatti i produttori e uno degli sceneggiatori sono gli stessi del film di Len Wiseman) e farciti da un’estetica ultra-pop e finto classica alla “Van Helsing”. Ma il problema è che “I, Frankenstein” riesce a carpire il peggio da tutti i prodotti da cui è influenzato, mostrandosi come un film privo della qualsiasi originalità narrativo-estetica, voglioso di strafare con mediocrissimi effetti speciali e noioso nella sua mancanza di una storia capace di coinvolgere lo spettatore.
Esente da qualsiasi spunto di personalità artistica, “I, Frankenstein” è la classico film usa e getta che si dimentica con gran facilità subito dopo averlo visto e a consolidare il ricordo non contribuisce neanche il cast, particolarmente mal assortito. Su
Arron Eckhart è meglio sorvolare, tanto è fuori parte e francamente ridicolo al solo pensiero che si chiami Frankenstein (anzi Adam Frankenstein, che fa più macho e giovanile), Bill Nighy interpreta con il pilota automatico il cattivo Naberius che non è altro che lo stesso identico personaggio che interpretava in “Underworld”, Mirando Otto è quella che si impegna di più e probabilmente aveva in mente “Il signore degli anelli” quando si stava preparando a questa parte, poi c’è anche Jai Courtney, che se gli togli il ruolo da bulletto che aveva nei panni di McClane Jr. in “Die Hard – Un buon giorno per morire”, mostra solo la sua cagneria.
Ah, poi c’è un dato curioso da valutare. “I, Frankenstein” è la trasposizione di un’omonima graphic novel di Kevin Grevioux. L’autore del fumetto è sceneggiatore, produttore e interprete anche del film (è il tizio di colore che qui fa la guardia del copro di Naberius e interpretava il Lycan in “Underworld”), ma con una mossa che non è facile da interpretare, questo film non c’entra assolutamente nulla con l’opera cartacea. Il fumetto parlava di un mostro di Frankenstein (che mostro lo era davvero e dalle fattezze karloffiane) diventato detective privato in una metropoli stile anni ’40 e alle prese con casi delittuosi che hanno al centro dissanguamenti vampireschi. E ci sono pure altri mostri della tradizione classica, dal Gobbo di Notre-Dame all’Uomo invisibile, passando doverosamente per Dracula.
Così sarebbe potuto essere divertente…