La dottoressa Abigail Tyler, detta Abbey, per capire la morte misteriosa del marito Will, decide di proseguirne gli studi e si reca a Nome, i cui abitanti soffrono di persistenti disturbi del sonno. Si svegliano di soprassalto e ricordano d'aver visto uno strano gufo alla finestra. Abbey ipnotizza Tommy, uno di loro, per scoprirne i ricordi inconsci. Quei ricordi sono però così terribili che l'uomo si rifiuta di parlarne. Se ne va a casa e tiene in ostaggio moglie e figli minacciando di ucciderli. Vuole che Abbey gli sveli il significato di alcune parole in una strana lingua. Quando Abbey non ci riesce, Tommy stermina la famiglia e si suicida. Grazie allo specialista dottor Odusami, Abbey scopre che quelle parole sono in lingua sumera e con l'aiuto del collega dottor Campos cerca di squarciare il velo del mistero.
Cast
Milla Jovovich, Will Patton, Hakeem Kae-Kazim, Corey Johnson, Enzo Cilenti, Elias Koteas, Eric Loren, Mia McKenna-Bruce, Raphaël Coleman, Daphne Alexander
Ottobre 2000. La dottoressa Abbey Tyler è reduce dal misterioso omicidio di suo marito, ucciso mentre era nel suo letto a dormire accanto a lei. Per far chiarezza su cosa sia accaduto all’uomo, Abbey si reca a Nome, in Alaska, dove il marito stava conducendo delle sedute psicanalitiche su alcuni pazienti che affermano di essere stati vittime di rapimenti alieni. La donna continua le sedute del marito e scopre delle caratteristiche comuni in tutti i presunti rapiti, che dicono di vedere un inquietante gufo fuori dalle loro finestre ogni notte. Quando anche Abbey vede il gufo la situazione per la donna comincia a precipitare e i suoi pazienti si comportano in modo sempre più strano.
Ormai il dado è tratto: dopo il filone del torture porn i primi dieci anni del terzo millennio verranno ricordati dagli horrorofili per il mockumentary. Tendenza sempre più diffusa da quando nel 1999 Myrick e Sanchez ci presentarono “The Blair Witch Project” e, dopo qualche anno di stasi, ci fu il vero e proprio boom con il fenomeno “[Rec]”; da quel momento la tendenza di costruire dei film horror su vicende spacciate per vere attraverso la messa in scena di documenti ‘attendibili’ e metodi di ripresa da ‘real tv’ sta ormai monopolizzando il panorama cinematografico horror. Dunque dopo l’uscita nelle nostre sale proprio di “[Rec] 2” e subito prima del punto di non ritorno “Paranormal Activity”, approda sul grande schermo anche “Il quarto tipo”, stavolta su tematica ‘alieni’.
“Il quarto tipo”, però, non è un mockumentary a tutti gli effetti, o meglio, non lo è per tutta la sua durata. Infatti il film diretto dall’americano dal nome impronunciabile Olatunde Osunsanmi adotta la tecnica del falso documentario solo per la
ricostruzione di alcune sedute psicanalitiche e interviste che dovrebbero fungere da materiale d’archivio (però sappiate che è stato tutto girato ex novo proprio per il film, anche i filmati con i ‘veri’ protagonisti, in realtà anch’essi attori!), impostando poi il resto dell’opera come qualsiasi film di fiction. Dunque niente riprese in soggettiva e nessuna resa amatoriale, ma semplicemente un ibrido che si innesta nel genere in modo un po’ trasversale.
C’è da dire che il potenziale di “Il quarto tipo” era davvero alto, la classica occasione di dar vita a un gioiellino di genere, dal momento che il gioco realtà-finzione e l’originalità della tecnica avrebbero potuto giocare sul fattore novità e, per di più, la tematica ‘rapimenti alieni’, se ben trattata, può dar vita a storie realmente inquietanti. Ovviamente se parto con questa premessa vuol dire che qualche cosa deve essere andato storto e il proverbiale ‘mare’ ha creato quella barriera che c’è tra il ‘dire’ e il ‘fare’. Infatti non solo “Il quarto tipo” ha gettato alle ortiche ogni potenzialità tecnico-espressiva-narrativa, ma è riuscito a presentarsi perfino come un film profondamente brutto.
Osunsanmi, che oltre a dirigere il film lo anche scrive, ha avuto la pessima idea di voler rendere una storia inventata vera ricordandoci però ogni 5 minuti che stiamo assistendo a una ricostruzione, dunque a un qualche cosa di finto. Facendo entrare in scena Milla Jovovich che si presenta al pubblico come se stessa, apponendo i nomi degli attori sullo schermo affianco ai personaggi che interpretano e (ab)usando dello split-screen per metterci vicini i volti degli attori/personaggi con quelli dei presunti reali protagonisti della vicenda (ma anche essi attori/personaggi, in fin dei conti) non si fa altro che intralciare di continuo la sospensione dell’incredulità dello spettatore, rendendolo così passivo all’esperienza filmica – il che è la cosa peggiore che possa accadere di fronte a un film – e non permettendogli di interessarsi ai personaggi e preoccuparsi per le loro sorti. Il risultato è un film poco interessante, troppo finto nel voler essere realistico a tutti i costi e quasi presuntuoso nel volersi imporre come documento attendibile, a cui contribuiscono anche le comparsate dello stesso regista in veste di intervistatore e presentatore della vicenda.
Altro punto che non depone a favore di “Il quarto tipo” è la totale mancanza di ritmo e l’assoluta piattezza narrativa della vicenda. I 100 minuti di film sono infatti costituiti quasi esclusivamente dalle sedute psicanalitiche alle quali la dottoressa Tyler sottopone i presunti rapiti. Ci sono molte chiacchiere, troppe per un film del genere, sporadicamente interrotte da improvvisi attacchi di panico che colpiscono gli ‘analizzati’ e che dovrebbero rappresentare i momenti di spavento anche per lo spettatore. In realtà dei 4-5 momenti di paura – tutti caratterizzati da un uso terroristico dell’alternanza dei piani sonori per creare l’effetto ‘salto dalla poltrona’ – ne funziona solo uno, quello che vede uno dei pazienti lievitare sul letto, gli altri sono più che altro fastidiosi siparietti quasi comici con gente che urla.
“Il quarto tipo” introduce due idee originali riguardo la tematica trattata: da una parte c’è l’aspetto degli alieni, dall’altra la loro natura divina. Il far apparire i visitors come dei gufi – ma nel film c’è un errore clamoroso, visto che quelli mostrati non sono gufi ma barbagianni! – è un’idea suggestiva e gli animali presi in considerazione, veri e propri padroni della notte, con la loro flemma e allo stesso tempo con l’aspetto autoritario, sembrano delle scelte
perfette per incarnare i visitatori notturni, a metà tra la realtà e l’incubo. La seconda idea, di ricondurre gli alieni alle divinità sumeriche, appare un po’ forzata e intrusa in una vicenda simile; la stessa cosa dicasi delle scene con i rapiti che si comportano come se fossero posseduti dal demonio, scelta originale ma poco attraente rispetto all’argomento trattato.
Il regista, che proviene dal pessimo clone di “The Descent” che risponde al nome di “The Cavern”, si diverte con espedienti di montaggio, a volte anche in modo esagerato, proprio come quei bambini che hanno appena scoperto un nuovo gioco e lo sbatacchiano a destra e a manca con il pericolo di romperlo. Il cast, che annovera nomi come Milla Jovovich (“Resident Evil”, “Ultraviolet”), Elias Koteas (“L’ultima profezia”; “Il Messaggero”) e Will Patton (“The Punisher”; “Fuori in 60 secondi”) è poco coinvolto e poco coinvolgente, forse anche a causa di personaggi piatti e privi di approfondimento.
Insomma un brutto film che ha l’aggravante dell’occasione sprecata, causata dalla scellerata idea di lasciare carta bianca a chi ha idee confuse, inesperienza e una latente mania di protagonismo.