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Giuliano Giacomelli
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Masuoka, ex cameraman televisivo, ora è un uomo solo, non ha più un lavoro e non ha più nemmeno una famiglia; passa le giornate intere rinchiuso nel suo piccolo appartamento a riprendere ed osservare, grazie ad una serie di telecamere installate da lui in diversi punti della città, immagini che riescano a mostrare l’origine del terrore. Un giorno si imbatte nel suicidio di un uomo nella metropolitana e così, per concepire e vedere l’orrore che ha spinto l’uomo a compiere quel gesto folle, Masuoka si reca sul posto. Esplorando i bassi fondi della metropolitana scopre che sotto la città si estende un misterioso mondo sotterraneo dove trova una ragazza, completamente nuda e incatenata al muro, che sembra non aver mai avuto alcun tipo di educazione. Masuoka decide di liberare la ragazza e portarsela nel suo appartamento, inizierà ad educarla e crescerla ma ben presto scoprirà che la ragazza è una terribile creatura che trova nel sangue il suo unico nutrimento.
Presentato in concorso alla 61ma Mostra Internazionale del Cinema di Venezia 2004 nella sezione “Cinema Digitale”, “Marebito” è forse una delle migliori opere provenienti dall’oriente e sicuramente è una delle più intriganti e inquietanti pellicole nipponiche giunte sino a noi oggi.
Girato in soli otto giorni ed interamente in digitale, il film risulta essere una doppia riflessione: da un lato cerca di meditare sulla solitudine, dall’altro riflette attentamente su quello che è il concetto di terrore, di paura. Per quanto concerne il primo punto, la solitudine, mai essa è stata rappresentata così magistralmente; “Marebito” ci narra in maniera sublime le gesta di un uomo davvero “solo”, che non riveste nessun ruolo utile nella società, la quale viene vista come un oceano vasto e freddo in cui ogni vita è completamente indipendente dalle altre, e non è di alcuna importanza per nessuno; un uomo che non ha modo di conversare con nessuno tranne che con se stesso; un uomo che ormai da anni ha perso lo scopo primario per vivere e così vaga, facendo ciò che meglio gli riesce, riprendendo tutto ciò che riesce a comunicargli terrore e sofferenza per poter meglio concepire la genesi della paura. Per ciò che riguarda il secondo punto, il concetto della paura, ci viene espresso in forme tanto evidenti quanto poetiche, mostrando chiaramente l’orrore nelle sue più primitive e innocenti forme; è così infatti che ci compare “F”, la ragazza, un essere che incarna per antonomasia il male ma che ci viene mostrato in forme primitive (non riesce a comunicare, si muove con difficoltà e a stento riesce a stare in posizione eretta) ed estremamente innocenti. Ma tale concetto ci viene anche più chiaramente espresso dalla figura di Masuoka, che si trova in una posizione di ricerca continua del terrore e dalle frequenti inquadrature dettagliate sullo sguardo (una su tutte l’inquadratura iniziale e finale) che riescono a ritrarre in pieno il concetto di “paura”.
Ma dietro questi doppi significati non si nasconde un prodotto mal fatto, pretenzioso e che ha come solo punto di forza riflessioni filosofiche ed astratte, questo “Marebito” utilizza tali concetti per sottolineare e sfruttare al meglio una storia avente già un ottimo potenziale in partenza, tanto che, seppur analizzando anche solo l’aspetto orrorifico di tale opera c’è da rimanerne basiti e terrorizzati, poiché ci si trova di fronte ad un prodotto che mostra l’orrore in forme diverse dai soliti horror nipponici, un orrore più fantastico ed inquietante rappresentato dai “Dero” terrificanti creature viscide e quadrupedi che vivono negli oscuri abissi della città e che riescono ad evocare le terrificanti creature di quell’horror britannico che è “The Descent”.
Ma passiamo all’aspetto tecnico; il film porta la firma di uno dei registi nipponici più celebri, ossia Takashi Shimizu, regista che è sempre stato alle prese solo ed esclusivamente con la serie “Ju-on”, dirigendo versioni televisive, versioni cinematografiche, seguiti e persino remake, e che ha dato con questo “Marebito” la prova di essere un ottimo regista capace di rappresentare visivamente una sceneggiatura che non ha nulla a che vedere con la saga “Ju-on”. Per questa pellicola, Shimizu adotta una tattica registica notevole, non si limita ad una rappresentazione banale ed elementare della sceneggiatura, ma va alla ricerca sempre di inquadrature particolari ed efficaci che innalzano notevolmente il livello del film. Oltre a Shimizu grande merito va all’attore protagonista, Shinya Tsukamoto (“Tetsuo – The iron man”; “Ichi the killer”), in quanto l’intero film è affidato completamente alla sua recitazione e alla sua grande capacità di comunicare molto più visivamente che non verbalmente poiché in sporadiche occasioni si troverà ad effettuare una conversazioni “a due” ma sarà sempre di fronte a dei monologhi, tra lui e la sua mente ed è per questo che in “Marebito” c’è una massiccia dose di voce fuori campo. Ma anche per ciò che riguarda la fotografia c’è da rimanerne stupiti; ci si aspetterebbe il peggio per un opera interamente girata in digitale invece un ottimo lavoro è stato fatto anche sotto questo aspetto che riesce a regalare all’opera una fotografia particolare e molto efficace.
In conclusione, “Marebito” risulta essere un prodotto notevole, affascinante ma soprattutto poetico sotto tutti i punti di vista. Un film che ha dimostrato le grandi doti registiche di Shimizu ed anche che in oriente si riescono a produrre pellicole dai risultati stupefacenti pur stando lontani dalle solite e ormai logore tematiche da ghost story.
Un film assolutamente da vedere.