Avanzada la noche, en una carretera rural, Tun y Jane atropellan accidentalmente a un misterioso peatón. Huyen de la escena y regresan a su quehacer cotidiano en Bangkok. Sin embargo, algunos fenómenos sin explicación empiezan a convertir su vida en una pesadilla constante. Jane se ve asediada por terribles sueños. Tun, fotógrafo de profesión, percibe extrañas figuras espectrales que empiezan a aparecer en sus fotografías. Cuando deciden regresar al lugar del accidente para investigar, no queda ningún rastro de la víctima ni noticia alguna sobre su desaparición o sobre el descubrimiento del cadáver. Sin embargo, uno a uno, van muriendo los amigos más próximos de Tun. Tanto él como Jane saben muy bien que deben resolver este misterio antes de que sea éste el que destruya sus propias vidas.
Il fotografo Tun torna in macchina insieme alla sua compagna Jane da una cena con gli amici, ma in un momento di distrazione investono per sbaglio una donna che stava sul ciglio della strada; in preda al panico, i due fuggono via senza prestare soccorso alla donna. Il giorno dopo Tun cerca informazioni sulla donna investita, ma scopre che nessun corpo è stato ritrovato e nessuno ha sporto denuncia. Da quel momento Tun comincia a notare dei cambiamenti nel suo stato di salute e riscontra in tutte le fotografie che scatta una strana figura evanescente che ha le sembianze di una giovane donna; mentre Jane comincia ad essere perseguitata da inquietanti visioni che hanno per protagoniste anch’esse una giovane donna.
Il prolifico mercato cinematografico orientale ha mostrato negli ultimi cinque anni un marcato interesse per il genere horror e soprattutto per le ghost stories, raccogliendo consensi di critica e pubblico e permettendo alla cinematografia asiatica di farsi finalmente conoscere in tutto il mondo. E’ inevitabile che la proliferazione di un determinato prodotto porti alla saturazione del mercato, tanto che, anche nel caso della ghost story di stampo orientale, si è vista una così ricca schiera di titoli, spesso di mera imitazione e di qualità scandente, da portare al collasso stesso del genere: ormai siamo ai ferri corti, è inevitabile, e gran parte dei film di questo tipo in uscita non sono altro che la stanca riproposizione delle solite storie, i soliti personaggi e le solite scene. Però, una volta ogni tanto, c’è il prodotto che si lascia distinguere, che brilla in mezzo all’opacità del ripetitivo genere, e il tailandese “Shutter” appartiene proprio a questa eccezione.
Il film diretto nel 2004 da Banjong Pisanthanakun e Pakpoom Wongpoom è naturalmente la riproposizione della medesima formula già vista e rivista decine di volte, da “The ring” a “The call”, in cui un fantasma ( donna ) in cerca di vendetta, rende invivibile la quotidianità di alcune persone, prediligendo la manifestazione attraverso un tramite di matrice tecnologica; dunque se in “The ring” c’era la videocassetta, in “Kairo” il sito internet e in “The call” il telefono cellulare, in “Shutter” è la macchina fotografica a fungere da tramite tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Fortunatamente, però, in questo caso la macchina fotografica non è semplicemente l’oggetto portatore di maledizione, ma è semplicemente il mezzo che rivela la presenza ectoplasmatica, ricollegandosi così ad una serie di credenze e tradizioni che vogliono il mezzo fotografico come capace di catturare l’aura spiritica, tematica sagacemente ed efficacemente sviluppata anche dal videogioco per consolle “Project Zero”.
La struttura che regge “Shutter” è palesemente costruita sulla falsariga dei precedenti film del genere e spesso ne ricalca il susseguirsi degli eventi alla perfezione, risultando dunque piuttosto prevedibile per lo spettatore più esperto; ma nonostante ciò “Shutter” riesce comunque ad appassionare grazie ad un ritmo piuttosto veloce e a sviluppare una personalità originale che lo contraddistingue sopra la media delle ultime produzioni appartenenti a questo genere. Come spesso accade per i film appartenenti a questo filone, i punti di forza di “Shutter” sono le apparizioni del fantasma, spesso originali e realmente inquietanti ( su tutte la lunga sequenza sulla scala a pioli ); ma in questo caso non si tende a subordinare la storia al facile spavento, come ad esempio accadeva in “Ju-On”, ma al contrario si da molta importanza alla costruzione narrativa del film, farcendo la pellicola di colpi di scena e capovolgimenti di senso, fino ad arrivare ad un finale disperato e struggente.
Insomma, malgrado la mancanza di originalità e la prevedibilità di alcune soluzioni narrative, “Shutter” risulta comunque un prodotto di alto livello, capace di coinvolgere, appassionare e spaventare. Sicuramente siamo di fronte ad uno dei più riusciti cloni di “The ring”.