RG
Roberto Giacomelli
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Alcuni studenti del college stanno girando un film horror insieme al loro professore di cinema quando vengono a sapere dalla radio che i morti si stanno risvegliando e stanno attaccando i vivi. I ragazzi, allora, si dirigono al dormitorio femminile per recuperare Debra, la ragazza di Jason, il regista del film, e poi fuggire in un luogo sicuro. Durante il viaggio Jason ha l’idea di riprendere tutto ciò che incontreranno sulla strada. Il risultato delle riprese è “The Death of death”, un documentario sull’epidemia zombesca che racconta tutte le verità che i media hanno taciuto.
A quaranta anni di distanza da “La notte dei morti viventi” e a soli due da “La terra dei morti viventi”, George Romero continua la sua personalissima critica sociale sottoforma di metafora orrorifica e con “Diary of the Dead” prende di mira il mondo dell’informazione.
Concettualmente parlando, Romero fa nuovamente centro imbastendo una feroce e cinica riflessione sul ruolo dei media nella costruzione dell’agenda informazionale dell’uomo contemporaneo. Da una parte abbiamo il concetto di “pervasività” dei media che ben si adatta alla condizione attuale in cui ogni momento della nostra giornata, ogni gesto, ogni scelta è spesso legata al mondo dei mezzi di comunicazione. Noi conosciamo determinate cose perché le abbiamo apprese dai mezzi di comunicazione; noi facciamo scelte d’acquisto perché spesso siamo influenzati dai mezzi di comunicazione, e via dicendo. I media ci guidano, possono manipolarci, possono drogarci e tenerci in costante stato d’allerta/rilassamento. Allo stesso tempo, però, i media sono arrivati alla portata di tutti e, soprattutto grazie all’avvento di internet, la condizione di consumatore si è soprapposta a quella di produttore di contenuti mediali: il “prosumer” è l’evoluzione dell’homo videns di sartoriana memoria, una sorta di homo videns-faber.
Romero gira attorno a questi concetti mostrando allo spettatore come la fuga di notizie generata da un gruppo di giovani filamkers che incarnano il suo ego sia estremamente più limpida e veritiera dei confusi, fallaci e manipolati “comunicati ufficiali” che infestano tv, radio, giornali e siti internet più autorevoli. Per dare attendibilità al suo discorso e per creare un’unitarietà tematico-stilistica, il regista si affida alla tecnica del mockumetary, il falso documentario reso famoso da “The Blair Wicth Project”. Forse è proprio questa voglia di novità stilistica a decretare uno dei grandi limiti di “Diary of the Dead”, ma non perché questo linguaggio non fosse adatto alla storia scritta da Romero (anzi, tutt’altro, ottima intuizione!), piuttosto perché il regista si è dimostrato fin da subito un po’ indeciso e impacciato su come mettere in scena l’effetto mockumetary. Romero è un ottimo regista “classico”, adora i cari vecchi mostri di una volta (il suo protagonista sta girando un film su una mummia) e ci tiene a rivendicare il concetto di morto vivente lento, perciò non potrebbe negare un alone di
classicità al suo film. Detto e fatto: “Diary of the Dead” è un mockumetary solo parzialmente, visto che le riprese sono pulite, quasi tutte ferme, ci sono effetti sonori (perfino alternanze di piani sonori!), voce fuori campo, colonna sonora e montaggio raffinato. L’effetto mockumentary, in pratica, è tenuto solo dalle riprese in soggettiva. Romero si giustifica, facendo pronunciare ad apertura film alla sua protagonista una motivazione a tutto ciò che lo spettatore sta per guardare, dal momento che “Diary of the Dead” non è altro che “The Death of death”, il documentario di Jason, montato e corredato di musiche ed effetti sonori atti a spaventare. Tale espediente crea uno strano effetto che sa di incertezza e indecisione, non coinvolge fino in fondo lo spettatore, appiattisce gli eventi e invece di creare un alone di realismo riesce a creare una costante area di falsità.
Un altro elemento negativo di “Diary of the Dead” è la mancanza di caratterizzazione nei personaggi, forse troppi e troppo allineati allo standard dei “tipi” da teen movie. Con poca pregnanza vediamo sfilare rispettivamente: il ragazzo ricco e menefreghista che si porta a letto le ragazze più belle, il ragazzetto nerd che capisce per primo come uccidere gli zombi, la ragazza fragile che
finisce per impazzire, la bionda oca che mostra le tette, l’adulto cinico e alcolizzato, il nero rude e leale, il militare subdolo e criminale. Insomma, probabilmente il troppo affollamento ha creato al regista e sceneggiatore qualche problema con la gestione dei personaggi.
Ma “Diary of the Dead” è sicuramente un film che si rivolge più al cervello e al cuore, come spesso accade nei lavori del Maestro, e sorvolando sull’incertezza della messa in scena e sulla piattezza dei personaggi (due elementi comunque considerevoli) rimane la sempre valida riflessione sulla pochezza dell’essere umano e sulla sempre più critica condizione della società che ci ospita. “Prima eravamo noi contro di noi, poi siamo diventati noi contro di loro…solo che loro siamo noi”, pronuncia la voce fuori campo della protagonista, riportando con poche parole all’assioma che muove il film e l’opera omnia del regista, riassunta anche dall’immagine finale che rimanda con lucida circolarità alla chiusura del capolavoro “La notte dei morti viventi”.