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EL ASESINO DE LA CAJA DE HERRAMIENTAS

The Toolbox Murders

1978 US
marzo 3, 1978

Un terrible accidente desequilibra al padre de la joven que lo sufrió. Entonces inicia una serie terrorífica de asesinatos de jóvenes lujuriosas. En 2003, Tobe Hooper dirigió un remake.

Directores

Dennis Donnelly

Reparto

Cameron Mitchell, Pamelyn Ferdin, Wesley Eure, Aneta Corsaut, Nicolas Beauvy, Tim Donnelly, Faith McSwain, Marciee Drake, Evelyn Guerrero, Kelly Nichols
Terror Suspense Misterio
HMDB

RESEÑAS (1)

GG

Giuliano Giacomelli

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Un complesso residenziale nella periferia di Los Angeles diviene “territorio di caccia” per uno spietato serial-killer volto ad uccidere, nei più atroci dei modi, giovani e seducenti donne. Gli omicidi si susseguono fino a quando, una notte, il killer rapisce la quindicenne Lourie lasciando la polizia a brancolare nel buio. Spetterà a Joey, fratello della ragazza rapita, mettersi sulle tracce del serial-killer per ritrovare e portare in salvo la sorella. C’è da riconoscerlo: volendo intraprendere un discorso concernete il cinema horror, e in particolar modo analizzando il cinema horror post-moderno, il decennio ’70 è stato senza dubbio alcuno un lasso di tempo assai prolifero e in cui la quantità delle produzioni horror andava, spesso e volentieri, a braccetto con la qualità. È proprio in questo periodo, infatti, che nascono alcuni tra i più grandi cult (si potrebbe tranquillamente parlare di “capolavori”) del genere ed è proprio in questo decennio che vengono a distinguersi dalla massa i nomi di alcuni registi capaci, con le loro opere, di riscrivere le regole del genere o di impartirne delle nuove. Ma pur riconoscendo la non indifferente ricchezza e qualità produttiva di questo decennio, a somme tirate, si tende sempre con il finire nella commemorazione della “solita” lista al cui interno sono elencati solo quei pochi titoli che, siccome attribuiti a nomi di un certo rilievo, per il comune pensare risultano essere i principali traguardi raggiunti dal genere in questo determinato periodo. Si ricorrerà, dunque, con il ricordare (giustamente) titoli quali “Non aprite quella porta”, “L’ultima casa a sinistra”, “Halloween”, “Zombi” e così via. Tutti film sicuramente degni di rappresentare il genere a testa alta, ma purtroppo in certe occasioni, per ostinarsi ad elogiare i soliti e ormai risaputi titoli, si tende a minimalizzare il decennio trascurando e mettendo in ombra quei film più “piccoli”, quei film che, per una ragione o per un’altra, non sono mai riusciti a sfondare ma che, obiettivamente parlando, nulla o quasi hanno a da invidiare a tutti i loro “colleghi” più celebri. Ecco, “Lo squartatore di Los Angeles” rientra pienamente in questa categoria. Diretto da Dennis Donnelly nel 1978, “Lo Squartatore di Los Angeles” è un interessantissimo quanto affascinante thriller/horror che, pur diventando un piccolissimo oggetto di culto da parte di una ristrettissima cerchia di horror fan, non è mai riuscito a raggiungere quella giusta (e si potrebbe dire meritata) fama capace di consacrarlo all’unanimità come autentico cult del genere. La storia narrata nel film è tra le più semplici, “Il classico thriller!” verrebbe da pensare, ma in realtà la pellicola diretta da Donnelly non ha nulla di scontato o di già visto poiché intenzionata ad abbandonare qualunque tipo di schema narrativo risaputo per correre in favore di una narrazione innovativa, quasi sopra le righe, capace di far cambiare volto al film molto rapidamente così da stupire lo spettatore minuto dopo minuto. Il film si apre con la repentina presentazione del killer che ci viene mostrato come un omone di notevole stazza, con il volto coperto da un passamontagna e che se ne va in giro trasportando con se una cassetta degli attrezzi dove ripone tutto il suo “arsenale” (la stessa cassetta degli attrezzi che da il titolo originale al film, “The Toolbox Murders”). Una volta presentato il killer, il film, procede con un’irrefrenabile catena di omicidi, che si susseguono rapidamente l’uno dopo l’altro, destinata a placarsi solamente a seguito del rapimento della giovane Lourie. A questo punto il film, che fino ad ora era apparso come un mosaico formato interamente da feroci omicidi, si prepara ad assumere dei connotati più classici, così da concedersi qualche piccola sosta narrativa per riuscire a caratterizzare al necessario i pochi personaggi in scena e per dare la giusta articolazione all’indagine portata avanti dal fratello della ragazza rapita. Ma quando il film sembrava ormai essersi stabilizzato, risultando un thriller poco più innovativo del normale, ecco che si prepara nuovamente a mostrare una nuova faccia, e lo fa in un epilogo così delirante e fuori dagli schemi da riportare alla mente quella perversione mostrata da T. Hooper in film quali “Non aprite quella porta” o “Quel motel vicino alla palude”. Ma a fare di questo film un cult indiscusso non ci pensa solamente la folle narrazione sostenuta da una valida sceneggiatura, bensì occorre riconoscere all’opera di Donnelly tanti altri meriti tra cui una particolare efferatezza nell’esposizione degli omicidi, un’efferatezza che mai culminerà nell’effettaccio splatter messo in bella mostra ma che preferisce, al contrario, l’utilizzo di una violenza suggerita, solo a tratti mostrata, capace di risultare comunque così cruda da fare de “Lo squartatore di Los Angeles” un film quasi disturbante. Da non trascurare, inoltre, è il magistrale connubio – presente quasi esclusivamente nel primo tempo del film – che viene ad istaurarsi con efficacia tra horror ed erotismo, un connubio che, oltre a giocare un ruolo importante nello “spiegone” finale, contribuisce a rendere il film ancora più eccessivo e morboso di quanto già non lo sia. Impeccabile la regia di Donnelly (alle prese, solitamente, con progetti televisivi) che sa dimostrarsi, in più occasioni, particolarmente ispirata raggiungendo il culmine durante il sorprendente (vera e propria scena culto del film) omicidio della ragazza nella vasca da bagno con una spara chiodi, una sequenza che, ottimamente diretta ed impreziosita in fase di montaggio, meriterebbe di essere studiata ed analizzata in tutte le più prestigiose scuole di cinema. Interessante, nonché intelligente, l’utilizzo della colonna sonora che, oltre ad annoverare un memorabile tema di base, risulta formata quasi interamente da melodici brani country capaci di stemperare al meglio la violenza delle scene così da generare un armonioso contrasto audio-video. Insomma, “Lo squartatore di Los Angeles” è un film davvero sorprendente, una pellicola ingiustamente poco conosciuta e che meriterebbe di essere inserita sulla lista riguardante i maggiori cult del decennio ’70. Gli spettatori più giovani, forse, potranno non gradirlo a causa di una resa visiva altamente grezza e un po’ “datata” (anche se, a parere di chi scrive, questo è forse uno dei maggiori pregi della pellicola) ma per tutti gli altri, invece, resta un film da riscoprire. Nota: Nel 2003, il film, è stato fonte di ispirazione per uno pseudo-remake da parte di Tobe Hooper distribuito sul nostro mercato con il titolo “La casa dei massacri” (in originale ancora “The Toolbox Murders”).

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