RG
Roberto Giacomelli
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Davide è un giovane magazziniere che vive da solo nella casa di campagna lasciatagli da suo padre. Ma un giorno Davide viene improvvisamente licenziato e il mondo gli crolla addosso. In difficoltà economiche e sfortunato nel trovare un altro lavoro, il ragazzo decide di rapire la giovane figlia di un industriale per chiedere un riscatto. Ma le cose si complicano e la mente di Davide sembra invasa da pericolosi demoni.
Dalla cartella stampa di “Mad in Italy” possiamo leggere: L’economia globale è colpita dalla crisi economica americana e importanti cambiamenti politici sembrano stravolgere i governi. […] Ispirato a reali fatti di cronaca MAD IN ITALY ci trascina in una realtà agghiacciante e disturbante. E questa manciata di frasi può riassumere efficacemente il punto forte del lungometraggio d’esordio di Paolo Fazzini, un thriller che trova la sua originalità nella voglia di insinuarsi nel sociale, in una situazione critica che investe l’Italia (e non solo)
soprattutto riguardo il precariato giovanile, che spinge spesso chi ne è travolto anche ad azioni disdicevoli. Ma la cosa curiosa è che “Mad in Italy” è riuscito a prevedere questo fenomeno, ad anticiparlo, visto che è stato girato quando ancora la parola “crisi” non era di uso comune e avendo la fortuna di esser pronto per il pubblico proprio a “crisi avviata”.
È interessante, dunque, l’utilizzo di una tematica radicata nel sociale come la disoccupazione giovanile per dare avvio a un thriller che non sarebbe dispiaciuto al pubblico di certi noir italiani anni ’70, con costanti riferimenti a un’italietta come quella odierna che costringe le persone alle azioni più terribili per “campare”. Però quest’adito sociale che fa la differenza in un film che comunque rimane di genere è forse relegato più alle intenzioni che ai fatti. “Mad in Italy” prende spunto da questi eventi,
che sono dichiarati in apertura film come reali, e pone diversi “remind” con i tentativi – a vuoto – di Davide di cercare lavoro in aziende che prediligono un titolo di laurea (come se questo, nella realtà, fosse davvero sufficiente…). Per il resto, però, si ha l’impressione che il film si divida in modo fin troppo netto in due anime che non riescono a convivere con naturalezza: da una parte abbiamo questo alone di impegno sociale che sembra quasi soffocare tutto e tutti, dall’altra uno spirito da film di genere che vorrebbe mettere in scena la storia di un “matto” che rapisce una ragazza. Le due facce non appaiono come della stessa medaglia e il film sembra far fatica a ingranare, procede continuamente a singhiozzi e alla fine si conclude quasi come un nulla di fatto, sia in una direzione che nell’altra.
Vedere il protagonista che se ne va in giro a fare colloqui di lavoro, spacciare droga e accudire una ragazza imbavagliata e legata ci dicono una cosa, che forse è il vero perché del film. Ma trovare poi lo stesso personaggio perseguitato da visioni inquietanti che sembrano spuntate da una ghost story di Takashi Shimizu o giocare a fare lo psicopatico sventrando e prendendo ad accettate malcapitati, ci dicono altro e quest’altro, nel contesto del film, è intruso, stona, rendendo la componete horror di “Mad in Italy” superflua e gratuita.
La messa in scena comunque è decisamente pregevole,
con una bella fotografia – curata da Mirco Sgarzi – che alterna tagli di luce realistici ad altri che prediligono gelatine colorate di baviana memoria. Anche la colonna sonora sa farsi ricordare, grazie a suoni elettro-pop che sottolineano in maniera originale le immagini.
Buono il lavoro degli attori, che per lo più gira attorno ai due protagonisti Gianluca Testa, dallo sguardo sufficientemente spiritato e allucinato per rendere credibile il suo personaggio, ed Eleonora Bolla che qualche tempo dopo sarà co-protagonista in “Come è bello far l’amore” di Fausto Brizzi, che offre una interpretazione molto convincente per la ragazza sequestrata.
In conclusione, “Mad in Italy” si mostra come un film dalle grandi potenzialità non del tutto espresse, rimaste più sul piano concettuale che su quello fattuale. Forse sarebbe stato più saggio lavorare di sottrazione sulla sceneggiatura dando un’identità maggiore a un film che vuole essere di “peso” ma dichiara di continuo il suo appartenere all’universo horror, che forse qui non c’entrava molto.