La infancia de Lawrence Talbot se acabó bruscamente la noche que murió su madre. Se marchó de su pueblo, Blackmoor, y tardó décadas en recuperarse e intentar olvidar. Cuando Gwen Conliffe, la prometida de su hermano, le encuentra y le ruega que la ayude a buscar a su amor, que se encuentra desaparecido, Lawrence Talbot regresa a casa. Entonces se entera de que algo brutal, salvaje, con una sed insaciable de sangre ha matado a muchos campesinos. Empieza a encajar las piezas del sangriento rompecabezas y descubre que existe una antigua maldición que convierte a las víctimas en hombres lobo las noches de luna llena. Para acabar con la carnicería y proteger a la mujer de la que se ha enamorado, Lawrence Talbot debe destruir a la temible criatura que se esconde en los bosques cercanos a Blackmoor. Este hombre sencillo con un pasado doloroso sale en busca de la bestia y descubre que él también tiene un lado primitivo que ni siquiera podía imaginar.
Directores
Joe Johnston
Reparto
Benicio del Toro, Anthony Hopkins, Emily Blunt, Hugo Weaving, Geraldine Chaplin, Art Malik, Antony Sher, David Schofield, Cristina Contes, David Sterne
Lawrence Talbot torna nella sua città natale alla notizia della morte di suo fratello Ben, divorato da una belva nei boschi. La caccia alla bestia è aperta: i paesani sono convinti che si tratti di un orso e per questo motivo si recano all’accampamento di gitani per lapidare la bestia, spedizione a cui partecipa anche Lawrence. Ma la bestia assassina non è l’orso, bensì un gigantesco lupo che si presenta all’accampamento e fa una strage, mordendo anche Lawrence. Ora tutti sono convinti che l’enorme lupo fosse in realtà un licantropo e dal momento che Lawrence ne è stato morso anche lui è destinato a trasformarsi nelle notti di luna piena. L’uomo si trova ora a dover affrontare la superstizione dei paesani e l’incombente maledizione, oltre a tutti i fantasmi del passato che aveva imparato a dimenticare, come il tragico suicidio di sua madre quando era solamente un bambino.
Nei primi anni ’90 la Columbia-Tristar Pictures aveva avuto la bella idea di riproporre sul grande schermo i personaggi del cinema horror classico degli anni ’30 e ’40. Fece da apripista con enorme successo il “Dracula” diretto da Francis Ford Coppola a cui seguirono il “Frankenstein” di Kenneth Branagh, “Mary Reilly”, punto di vista inedito sulla storia del Dottor Jekyll a cura di Stephen Fears, e la re-visione del mito del lupo mannaro in chiave moderna con “Wolf – La belva è fuori” di Mike Nichols. La formula era chiara: prendere un’icona del cinema fantastico del passato, con origini letterarie o non, e riportarlo su grande schermo con un considerevole impegno produttivo che comprendesse grandi star nel cast e un regista autorevole alla direzione. Passò almeno
un lustro e anche l’uomo invisibile tornò a farci visita con “L’uomo senza ombra” di Paul Verhoeven, sempre targato Columbia e ancora rispettando la solita formula. Il campionario di mostri era dunque quasi completo, mancava all’appello giusto il Fantasma dell’opera, che comunque non era mancato dagli schermi con la rivisitazione di Dario Argento, il Mostro della laguna nera e la Mummia, creature proprietà della Universal Pictures. A quest’ultimo però ci pensò Stephen Sommers nel 1999 (e ancora nel 2001), che, sotto l’ala protettiva di mamma Universal, riportò nel 2004 su grande schermo anche tutti gli altri mostri, da Dracula alla creatura di Frankenstein, in quel minestrone un po’ indigesto di “Van Helsing”. Insomma in poco più di un decennio tutte le icone dell’horror classico sono tornate su grande schermo, anche più di una volta, come a voler sancire l’immortalità di tali “mostri” e allo stesso tempo la carenza di idee originali in quel di Hollywood.
Ma era inevitabile che in un periodo di remake convulsivo e ritorno di vecchie glorie come quello attuale qualcuno di questi satanassi in bianco e nero non si rifacesse vivo, così a quasi settanta anni dalla prima apparizione su grande schermo
torna l’Uomo lupo, l’originale, quello che all’anagrafe e senza eccesso di peluria risponde al nome di Lawrence (Larry per gli amici) Talbot.
Nel 1941 era il poliedrico figlio d’arte Lon Chaney Jr. a vestirne i panni (e i peli), oggi è il bravo Benicio Del Toro, che si è interessato personalmente al progetto producendolo. Il risultato di questo remake dalla gestazione travagliata – durata diversi anni con cambi di regista e di script – è sorprendente e inaspettato, un perfetto pop-corn movie che racchiude più di ogni altra attualizzazione di vecchi classici lo spirito dell’opera originale da cui prende ispirazione.
Ciò che fino ad ora i “nuovi” vecchi mostri non erano riusciti a trasmettere era quel senso di genuino intrattenimento quasi exploitativo che caratterizzava gli originali in b/n e le successive riscritture (per lo più hammeriane), si passava senza mezze misure dall’elitarismo delle prime produzioni Columbia- Tristar (che comunque ha dato vita a veri e propri capisaldi, vedasi “Dracula” di Coppola) alle baracconate per pubblici più infantili della Universal, l’unico che fino a questo momento era riuscito a rievocare un po’ di sano ‘genere’ era stato Verhoeven col suo “Uomo senza ombra”. Ma con “Wolfman” si è giunti alla perfezione stilistica e contenutistica del film di serie B per grandi pubblici, all’ideale riproposizione dell’antica formula che aveva dato i natali a tutti i mostri qui citati.
La storia raccontata in “Wolfman” ripercorre in modo abbastanza fedele quella dell’originale scritto da Siodmak apportando però sostanziali modifiche nell’evoluzione dell’intreccio, soprattutto approfondendo e complicando i rapporti
tra i personaggi. Così la sceneggiatura ad opera di Andrew Kevin Walzer (“Seven”; “Il misero di Sleepy Hollow”) e David Self (“Haunting – Presenze”; “Era mio padre”) cerca di puntare più sui rapporti familiari di casa Talbot piuttosto che sul tormento di un uomo affetto da licantropia. La forza, a livello narrativo, di “Wolfman” sta proprio nel complicato rapporto padre-figlio, un rapporto conflittuale che sembra voler fondare le sue radici della tragedia greca; Lawrence Talbot appare così come un moderno Edipo, un figlio che prende poco a poco consapevolezza della sua rivalità con il padre, una rivalità quasi scritta nel destino che ha preso origine da un trauma e da una successivo allontanamento e che ha reso praticamente un estraneo il genitore agli occhi del figlio. La lettura tragica che viene qui data della vicenda familiare dell’uomo lupo ha una teatralità tanto scontata quanto azzeccata, avvalorata anche da una dimensione meta e intertestuale che pone Talbot letteralmente come un attore shakespeariano: Talbot, infatti, nel film è un attore di teatro specializzato in Shakespeare che si trova così a vivere nella realtà le situazioni di conflitto interiore e parentale tanto care ai personaggi che interpreta sul palcoscenico. Finezze, queste, che danno valore a un film che per altri versi si mostra fin troppo semplicistico e con personaggi secondari poco approfonditi, forse monco di qualche scena scartata per donare più ritmo privilegiando
l’azione alle scene di riflessione. Non si tratta comunque di peccato mortale, visto comunque il materiale d’origine che, seppur sottoponibile a diverse letture retroattive di carattere metaforico, era comunque intrattenimento semplice, lineare e popolare.
Curiosamente il film ci offre un personaggio ‘intruso’ nella storia dell’Uomo lupo ma perfettamente funzionale nel contesto, ovvero il detective Abberline (interpretato da Hugo ‘agente Smith’ Weaving), noto storicamente per essere stato la nemesi di Jack lo squartatore e qui spedito da Scotland Yard a indagare sul caso del licantropo. Una scelta singolare quella di creare una sorta di spin off della vicenda del serial killer di White Chapel e dare così un’aura di realismo e allo stesso tempo di serialità alla nuova storia sull’Uomo lupo.
Altro merito va a Benicio Del Toro, grande fan del film del ’41, che fa di tutto per richiamare alla mente Lon Chaney Jr., dall’aspetto alla recitazione un po’ dimessa, un grande attore del presente che omaggia con sentimento un altrettanto grande attore del passato. Il cast comprende anche Anthony Hopkins, che interpreta il padre di Lawrence, e la bella Emily Blunt (“Il diavolo veste Prada”; “Wind Chill – Ghiaccio rosso sangue”) nei panni di Gwen, la cognata di Lawrence.
Una menzione particolare al magnifico make-up dei licantropi ad opera di Rick Baker (che si ritaglia anche un cameo, è il primo zingaro ad essere ucciso!), che riesce ad omaggiare quello del film
originale (che era opera di Jack Pierce, un idolo di Baker) pur mantenendo una sua specifica personalità. Peccato per l’uso massiccio di computer grafica, soprattutto nelle trasformazioni, che comunque non compromette la riuscita degli effetti speciali. Inaspettato il tasso di emoglobina e violenza, decisamente massiccio per un prodotto mainstream come “Wolfman”, che in alcuni punti sfocia tranquillamente nello splatter puro, un valore aggiunto sempre gradito in un film che racconta di lupi mannari.
Sicuramente non ci troviamo di fronte a un film perfetto, soprattutto se prendiamo come metro di paragone la produzione da serie A di cui questo “Wolfman” ha la parvenza esteriore, ma lo spirito e gli intenti del film di Joe Johnston (“Jumanji”; “Jurassic Park III”) appartengono a quella che semplicisticamente (e ignorantemente) siamo soliti definire serie B, una magnifica serie B, che ripropone in maniera certosina intenti e atmosfere dei progenitori.